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Filth – Il lercio

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Non ho letto il racconto di Irvine Welsh – anche se devo riconoscere che spesso i film tratti dai suoi romanzi mi affascinano più della versione su carta – ma devo riconoscere che questo Filth ha fortemente quell’impronta così profondamente ascrivibile allo scrittore scozzese.

C’è Edimburgo come sempre (anche se la sua amata Leith marca un po’ visita stavolta) e vedere un film ambientato nella città in cui vivi fa sempre colpo. Soprattutto perché certi scorci di Edimburgo sono ottime quinte per una storia dura come questa. Si ride? Certo, anche. Ma dal momento che James Mc Avoy attraversa le porte del Castello, si sa che l’odore del marcio è in arrivo, e la domanda è non se arriverà, ma solo quando.

La trama è presto detta: il violento e corrotto ispettore di polizia Bruce Robertson aspira ad una ambita promozione, e per ottenerla farà di tutto per screditare i suoi colleghi e possibili avversari.

Quello che la trama non dice è invece la profondità dello scavo introspettivo che la coppia Welsh/Baird porta sullo schermo, la violenza iconografica (che in effetti non manca mai nelle opere di Welsh), così come il viaggio dentro il proprio personale inferno. Ma ancor di più ho trovato interessante il tema – inatteso – del doppio, maschile e femminile, vittima e carnefice, realtà e immaginazione, lerciume e candore – soprattutto nell’animo – che Mc Avoy incarna alla perfezione, con i suoi occhi troppo limpidi e le unghie smozzicate.

E c’è tanto Kubrick dietro gli interrogatori del dottore che cerca di indagare nell’anima di Robertson, nell’uso raffinatamente distorto delle musiche, negli spazi estremamente sospesi e dilatati, come di un’anima che cerca – espandendosi – la propria crocifissione.

La fine si sa dall’inizio, ma un piccolo consiglio. Rimanete ancora un po’ al termine dello spettacolo: i titoli di coda meritano e ricordano – se ce lo fossimo dimenticati – che in fondo, la vita è tutta un film.